Ero veramente e follemente innamorata di Roma

Una volta ero perdutamente innamorata di una città che sembrava uscita da un libro di storie incantate. Roma, il gioiello eterno, l’unica città che sapeva mostrarsi bella anche sotto la pioggia battente. Quei sanpietrini lucidi, che talvolta mi hanno fatto scivolare dal motorino, non smettevano mai di brillare, come il carattere inimitabile della città stessa. I suoi suoni rudi, autentici, che ti facevano sorridere anche nelle situazioni più assurde: le urla tra i vari automobilisti imbottigliati nel traffico delle otto del mattino, la danza dei gabbiani sopra l’immensità del Tevere, con le sue acque color giallognolo mai troppo limpide, e quei tramonti che sembravano accarezzare l’animo anche nella giornata più grigia.

Roma era viva, pulsante, un’anima che ogni mattina mi accoglieva con un “Buongiorno signorì!” e la notte mi salutava dolcemente con un “Notte Federì!“. È stata la mia prima casa, la città che mi ha aperto le braccia quando il mondo intorno a me non era più il mio. La prima fuga verso una scoperta di me stessa, i primi passi da sola, incerti ma pieni di speranza, li ho mossi tra le sue vie. Avevo amici, una storia da dimenticare e un’intensa determinazione a guardare sempre avanti. Roma era tutto per me, appena maggiorenne. Era un sogno che vivevo ogni giorno, la cornice perfetta per il mio primo capitolo lontano da casa.

Oggi, dopo quindici anni da quella magica infatuazione e cinque degli ultimi anni vissuti di nuovo di giorno e notte tra i suoi quartieri, non la riconosco più. Durante il Covid, si respiravano i primi timori, i primi “chi va là”, ma c’era ancora una scintilla di libertà negli sguardi della gente. Ora quella scintilla sembra spenta. Persone sempre più tese, occhi che s’incrociano solo per girarsi dall’altra parte, una gentilezza che è quasi un ricordo lontano. E quando compare, fragile e rara, sembra che nessuno sappia coglierla. “La gentilezza porta gentilezza“, mi hanno insegnato da bambina, ma oggi mi sembra quasi una bugia. La gentilezza fa paura, perché non è più abitudine, è diventata un’anomalia che persino spaventa.

Testarda come sono, mi ostino a salutare tutti nel giardino del condominio. Anche quelli che si girano per ignorarmi. “Buongiorno!”, glielo ripeto una, due, tre volte, finché mi rispondono. Alcuni, ormai, mi precedono nel salutarmi la mattina. Forse ho intimorito loro davvero, con questo gesto così piccolo da sembrare rivoluzionario. Un sorriso? Non osiamo neanche parlarne. Un “Posso aiutarla?” potrebbe sembrare quasi scandaloso. Oggi Roma mi mostra una faccia nuova, una città che – purtroppo – ti insegna a non fidarti, a mettere in discussione anche i legami più semplici, in un gioco tra convenienze e vuoti “poi ci vediamo“, “poi facciamo“, “poi andiamo“. Rapporti sterili, senza cuore, costruiti su sabbia. Cosa mi porto a casa? La sensazione di non essere mai accettata.

Non so se sia la malattia delle grandi città, se sia stato il covid o altro, ma una cosa è certa: ero veramente e follemente innamorata di Roma.

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